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Il Ponte


Sette ponti come metafora della comunicazione e della collaborazione tra l’Europa e il resto del mondo. Sette ponti per superare le distanze e le differenze che ancora ci separano. Sette ponti per rappresentare sette diversi stili architettonici legati ad altrettanti periodi storici e culturali europei. Queste, formalmente, le motivazioni ufficiali dell’Istituto Monetario europeo (IME) per la simbologia delle nuove banconote dell’Euro . Con il ponte riprendiamo e chiudiamo la nostra rassegna sui valori dietro l’Euro. La riprendiamo con il domandare che sin dall’inizio ci ha accompagnato: è l’uomo a scegliere il simbolo o è il simbolo a venirgli incontro? E’ possibile che il simbolo come parola poetata custodisca e accenni a qualcosa che superi le intenzioni stesse dell’uomo? E infine, com’è che una cosa come un ponte si fa simbolo?

Chi furono i primi che le sponde dei fiumi
e il cielo e la terra vollero unire,
e con essi gli uomini agli dei?
Tanto tempo è passato che di ciò
si è perduta memoria.
Oggi un ponte è solo un ponte
e un fiume è solo un fiume.
Ma vi fu un tempo che con sguardo più sicuro e aperto
ai fiumi l’uomo si volse
e ai ponti, quadratura di terra e cielo, uomini e dei…

Un ponte è solo un ponte. Al di sopra del fiume esso si slancia “leggero e possente” , riunendo in una reciproca vicinanza il fiume e le rive e la terra circostante. Così il ponte conduce il fiume attraverso i campi e le strade che un tempo correvano alte sui colli, lontane dalle piene minacciose, ora s’incrociano qui, in prossimità del ponte. Saldamente piantati nel letto del fiume, i suoi pilastri reggono lo slancio delle arcate sopra le acque ora quiete e briose in cui si riflette un cielo sereno, ora tumultuose e irruenti che le piene di una tempesta o del disgelo precipitano a valle. Il ponte è sempre pronto per ogni umore del cielo.
Perfino nei nostri spostamenti, sempre più affrettati e distratti, il ponte conduce su altre sponde. Anche ricoperto e nascosto dal bitume delle strade moderne esso permette di giungere -e in modi sempre diversi- su nuove rive. Ecco, già in questo senso il ponte cessa di essere semplice cosa e diviene simbolo. “Thing” dicono gli anglosassoni la cosa, custodendo ignari un’antica verità dimenticata di tutte le cose, che l’essenza della cosa è sempre un radunarsi: “thing” secondo un’antichissima accezione tedesca significava infatti riunione, raduno. Ecco come la cosa che è il ponte, proprio nella prospettiva sin qui descritta, come quadratura, riunione di terra e cielo, uomini e dei, diviene simbolo. Le antiche saghe norrene dell’Asgard, la mitica cittadella degli dei, e di Heimdall, la sentinella, narrano di un ponte, un ponte d’arcobaleno, che univa il mondo degli dei al Midgard, la terra degli uomini. Fu forse questa “tremula via”, questo arc-en-ciel, unito al desiderio di riaprire la via, a ispirare agli uomini la creazione del ponte ? Nessuno può più rispondere a questo nostro domandare da che silenzio e oblio fanno corteo ai mortali .
Un debole richiamo al divino e a questa simbologia riecheggia ancora nella sbiadita figura del santo protettore del ponte che qua e là pure resiste all’avanzata della segnaletica e della pubblicità, ma non si tratta che di deboli tracce per le quali a dire il vero non abbiamo più tempo.
Certo, oggi siamo poco abituati a riflettere sui simboli e sull’essenza delle cose. Tutto ciò che va oltre il percettibile viene considerato come un qualcosa d’irreale, frutto della nostra interpretazione. In un certo senso è come se l’essenza delle cose, ciò che per i filosofi era il da-pensare, si sottraesse all’uomo e gli si negasse. Ma ciò che si nega si è già presentato e comunque nel suo ritrarsi, nel suo distogliersi, non scompare mai del tutto. Chi pretende di dimostrare le cose attraverso un percepito, opera semplicemente un calcolo in base ad una misura assolutamente inadeguata: l’essenza delle cose, “ciò che è da-pensare”, si manifesta infatti soprattutto nel suo nascondersi e ad esso noi possiamo corrispondere solo indicando nella sua direzione. Il da-pensare che si nasconde ritraendosi di fronte all’uomo, l’uomo lo custodisce nel simbolo, e proprio in questo additare (in lingua tedesca “Weisen”) è la nostra essenza (“Wesen”). Questo additare nella direzione di ciò che si nasconde, questo dire l’indicibile, gli uomini chiamano Poesia.
Spesso i poeti hanno cantato i fiumi. Il fiume come Genio, è metafora tra le più diffuse del Settecento europeo , allegoria talvolta dell’intero ciclo biologico, dal disgelo al suo perdersi nel mare (vedi Il Canto a Maometto di Goethe del 1774 in cui un imprecisato fiume avanza inarrestabile, fondando nuove città e trascinando nella sua corsa i “fratelli”, gli affluenti, per sfociare infine “fragoroso di gioia” tra le braccia del padre). Emblematica, anche in questa prospettiva, è l’opera di Holderlin, autore di poesie quali Der Ister (Il Danubio) e Der Rhein (Il Reno).
Non invano i fiumi
si spingono nella terra arida
scriveva nel 1804, osservando come l’universo si rispecchi nelle acque del fiume. Non altrimenti, sembra suggerire Holderlin, l’Altissimo giunge sulla terra. Ma il fiume che meglio si presta all’interpretazione allegorica del poeta è il Reno, il principale fiume tedesco, che discende
i gradini dell’Alpe,
che secondo antica credenza
ha il nome di rocca dei celesti,
costruita per mano divina, dove però
decisioni segrete ancora
giungono agli uomini.
Il Reno di Holderlin non è il Genio che “sovverte titanicamente le regole, obbedendo al suo solo istinto, alla legge dell’ispirazione ”. Il Genio dei fiumi di Holderlin segue al contrario “un destino inscritto nella storia e nella natura” e perciò divino. L’uomo, sostiene il poeta attraverso l’allegoria del fiume, deve aprirsi al divino riconoscendone i segni, resistendo alle pulsioni che rischiano di travolgerlo e accettando i propri limiti.
Ritornano negli Inni di Holderlin i miti delle sacre sorgenti, la ricchezza delle origini, ma i suoi fiumi ci indicano anche quanto sia difficile il risalire alla sorgente, che è sempre un andare contro corrente. Il tratto più proprio, l’origine, la genuina purezza sono là, ma gli uomini, come i fiumi, vivono volgendogli le spalle.
I nostri fiumi ci ricordano invece che gli antichi e misteriosi Etruschi avevano senza dubbio compreso la valenza simbolica di un “gettare” ponti su tutto ciò. “Pontefice” chiamavano infatti il loro sommo sacerdote. Gli Etruschi, Razna nella loro lingua (Rasenna diciamo oggi), conducevano una vita regolata e scandita dal sacro ma non furono mai grandi costruttori di templi. Il loro genio architettonico si espresse perlopiù nella costruzione di mura e di porte, e proprio negli archi di queste porte e dei ponti essi diedero miglior prova della loro maestria. Essi attribuivano alle acque del fiume poteri particolari, come quello di dispensare guarigioni o di favorire una buona sorte. Si trattava spesso di richieste che guerrieri in marcia verso Nord, o coloni alla ricerca di territori vergini su cui insediarsi rivolgevano al Dio. Molti reperti in bronzo, offerte votive come statuette in forma di guerrieri o parti del corpo (teste, busti, arti ecc.) furono rinvenuti in prossimità di antichi ponti e presso le polle sorgive dei fiumi .
Il dio del fiume e il fiume come dio non furono peraltro una prerogativa dei soli Etruschi. Già gli Egiziani avevano inteso riconoscere la divinità del Nilo col mito e col culto di Iside e Osiride, il cui rito sopravvive inopinatamente, sebbene trasfigurato, nella Luminara di San Ranieri a Pisa.
I fiumi furono oggetto di culto anche presso i popoli Celtici. Il fiume Dee per esempio, fu venerato come divinità col titolo di Aerfon, mentre il Ribble, chiamato a suo tempo Belisama, fu identificato dai Romani addirittura con Minerva. Che il nome Dee si ricolleghi etimologicamente a “divinity” è considerato assi probabile da quasi tutte le fonti . In particolare sappiamo che il fiume veniva interrogato e che poteva fornire responsi di natura oracolare: così il suo uscire dall’alveo su una sponda o sull’altra prediceva la vittoria di una parte sull’altra in caso di conflitto . Il folklore suggerisce altresì che ai fiumi si tributassero un tempo sacrifici umani. Privati delle offerte attese i fiumi si prenderebbero oggi le vite umane richieste, afferrandole di nascosto:
“River of Dart, River of Dart, every year thou claimest a heart ” suona una canzone popolare del Devonshire, e tradizione vuole che anche lo Spey esiga un vita umana ogni anno, mentre lo spirito del Ribble si accontenterebbe di una vittima ogni sette anni . Ma i fiumi celtici, come quelli greci, erano considerati anche quali progenitori di discendenti umani: come ad esempio il Tweed, in Scozia .
I Greci, che dagli Egiziani tanto appresero, vedevano addirittura nell’acqua il principio e l’origine del tutto e ai fiumi sia Esiodo sia Omero spesso rimandano. Figlio di Zeus è per Omero lo Scamandro, il dio del fiume della Troade che gli dei chiamavano Xanto, nelle cui acque si affrontarono le falangi di Achille e di Ettore.
Difficile oggi riconoscere qualcosa di divino in quel rigagnolo che resta dello Scamandro. L’uomo moderno non crede più o crede troppo affrettatamente. Anche i suoi ponti, la sua architettura, riflettono del resto un nuovo sentire. Ponti che non sono nemmeno più propriamente ponti ma cavalcavia e viadotti, si slanciano oggi non sui fiumi ma su altre strade e ferrovie e terreni e fabbricati. L’arco, che i greci chiamavano bios, come la vita, è stato superato da nuove tecniche, la viva pietra sostituita dal calcestruzzo. I sette ponti dell’Euro al di là della retorica ufficiale della burocrazia e della politica, ci conducono così su un cammino emblematico che evoca un’idea o piuttosto un interrogativo sull’idea di progresso. “Favete linguis!” recitava l’antica formula pontificale dei Rasenna: “Silenzio! Silenzio propiziatorio!” : il luogo del Dio del fiume che il ponte riunisce nella sua quadratura di cielo e terra conosce forse quella risposta che la parola dell’uomo, la parola che vaga ormai smarrita, e spesso indegna perfino del più superficiale ascolto, non custodisce più.
Firenze, 2 luglio 2757